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Per Aspera Ad Veritatem n.20
Evoluzione della situazione balcanica e riflessi sulla sicurezza in Italia

Lucio CARACCIOLO




Intendo articolare la discussione focalizzando tre questioni: la prima è a che cosa servono i Balcani (in particolare a che cosa possono servire a noi); la seconda è riferita a come stanno cambiando soprattutto dopo le ultime svolte politiche dello scorso anno (mi riferisco a Zagabria e a Belgrado); e la terza concerne le minacce che riguardano il nostro paese e come possiamo in qualche modo contribuire a stabilizzare la nostra frontiera orientale. Quando parlo di frontiera orientale mi riferisco essenzialmente a tutto lo spazio adriatico-ionico (da Trieste a Santa Maria di Leuca, fino alla Calabria).
Per quanto riguarda il primo punto, esiste una scuola di pensiero corrente, che ha anche ottimi fondamenti, che considera i Balcani essenzialmente un buco nero, una sorta di area negativa da cui possono provenire unicamente minacce e da cui possono scaturire pericoli e addirittura guerre. Da questa visione negativa, scaturisce dal punto di vista operativo un'azione puramente difensiva ed emergenziale, ossia di fronte ad un buco nero si cerca di difendersi e si reagisce alle emergenze. Il risultato è che da quando le crisi balcaniche sono scoppiate in maniera palese - tuttavia, esse erano state concepite molto tempo prima - abbiamo sempre inseguito le crisi una dopo l'altra, a cominciare dal disfacimento della Iugoslavia, anche quando la retorica ricorrente era "vogliamo una Iugoslavia unita e democratica". Nulla poi è stato fatto in concreto per raggiungere tale obiettivo, fino agli ultimi avvenimenti (mi riferisco alla guerra del Kossovo). Adesso aspettiamo la prossima crisi per poter fare qualcosa. In questa visione puramente negativa e quindi emergenziale, abbiamo lasciato che fossero i Balcani a determinare la nostra politica, più di quanto noi potessimo determinare quello che accadeva nei Balcani. Dal nostro punto di vista, il dato strutturale più pericoloso di questa non politica o politica emergenziale è il radicamento di quelli che definirei "Stati-mafia" alla frontiera orientale italiana, cioè non Stati, istituzioni o pseudo-istituzioni in cui il livello politico e il livello criminale sono difficilmente distinguibili, quando non totalmente coincidenti. Dal punto di vista italiano, questo è il vero pericolo nel lungo periodo. Esiste però una visione meno negativista, più attiva e più profondamente geopolitica dei Balcani che, a mio avviso, ha anch'essa qualche fondamento ed un'utilità operativa. E' tutto vero quello che ho detto in precedenza sulla situazione pericolosa, sugli "Stati-mafia", ma in prospettiva, qual è la funzione geopolitica di quest'area, non dei Balcani in senso allargato, ma soprattutto dell'ex-Iugoslavia e dell'Albania. In particolare, mi riferisco anche ai Balcani adriatici, cioè agli Stati che si affacciano più direttamente sul nostro territorio. Si tratta essenzialmente di una regione di transito. I Balcani non hanno un'importanza in sé ma in quanto area di transito e di collegamento fra Russia ed Europa, in special modo tra Europa del nord ed Europa mediterranea. Quindi, è essenziale considerare quest'area come una regione, come una realtà che ha al suo interno Stati, statarelli e protettorati, essenzialmente concepita come una zona di transito. Io vedo soprattutto tre dimensioni dei Balcani intesi come regione di transito e di collegamento: una dimensione euroasiatica, una euromediterranea e una italoeuropea. Dal punto di vista euroasiatico, i Balcani hanno una funzione di cerniera. Possiamo definirlo "sistema dei tre mari" (Mar Caspio, Mar Nero e Mar Adriatico-Mediterraneo). Questa area (sistema dei tre mari) è stata in parte sbloccata, anche dal punto di vista dei transiti, soprattutto in prospettiva, dal fatto che in Serbia, cuore dei Balcani, si è verificata una svolta che ha reintegrato nel circuito europeo questa regione cardine. I collegamenti cominciano a diventare di nuovo importanti, soprattutto quelli che potrebbero essere in futuro oleodotti e gasdotti, che dal punto di vista economico converrebbe fare passare per la Serbia. Basta pensare che il Mar Caspio è considerato, forse in maniera esagerata, forse no, uno dei grandi bacini energetici dei prossimi anni, soprattutto nella zona nord, e in maniera minore, nella zona meridionale. Il collegamento energetico che potrebbe portare il gas e il petrolio dalla zona del Mar Caspio verso l'Europa, dal punto di vista dell'economicità delle condotte sarebbe preferibile passasse per i Balcani, piuttosto che seguire percorsi tortuosi o affrontare la strozzatura del Bosforo che rappresenta sempre una "bomba ecologica". Quindi, il fatto di poter liberare, attraverso l'integrazione della Serbia, un sistema di condotte energetiche che colleghino i giacimenti caspico-caucasici con i mercati e con le industrie dell'Europa occidentale e, in particolare, ovviamente anche le nostre, è di una certa rilevanza. Purtroppo, questo tipo di transito riguarda meno i prodotti energetici e molto più un altro genere di prodotti, che forse è meglio non additare come esempio industriale, in quanto essenzialmente si tratta di traffici di droga, prostituzione e così via. Ma io credo che in prospettiva si possa immaginare che quest'area alla nostra frontiera orientale avrà una funzione di carattere positivo, cioè di transito delle condotte energetiche euroasiatiche. Esiste poi una dimensione euromediterranea, cioè i Balcani intesi come elemento di connessione tra l'Europa centro-settentrionale e il Mediterraneo. Pensate alla condizione di un paese come la Grecia, un Paese dell'Unione Europea, culturalmente e storicamente balcanico, che non ha una continuità territoriale con il resto dell'Unione Europea e quindi vede i Balcani inevitabilmente in una dimensione nord-sud. Una dimensione che europeizzando i Balcani renda di nuovo omogeneo tutto lo spazio balcanico da un punto di vista politico, o quanto meno prepari un'integrazione anche di quest'area. Questo è importante anche per noi. Infatti è interesse anche italiano che quest'area alla nostra frontiera si inserisca nel processo di integrazione europea con gli altri Paesi, dalla Polonia, alla Cechia, all'Ungheria, alla stessa Slovenia, candidati in qualche modo ad entrare nello spazio europeo. Il nostro interesse è che questo buco nero, questa terra di nessuno dal punto di vista geopolitico possa essere in prospettiva, sottolineo in prospettiva, integrata in un progetto europeo. In una dimensione italo-europea, da un punto di vista geopolitico i Balcani sono per noi, quello che la Polonia e la Cechia sono per la Germania. Questo dato evidenzia la differenza di condizioni. A noi piacerebbe trattare con la Polonia e la Cechia piuttosto che con l'Albania e il Montenegro, ma non è possibile scegliere. Così come per la Germania è fondamentale la stabilizzazione e l'integrazione economico-commerciale della Polonia e della Cechia in un'area a un tempo tedesca ed europea, lo stesso interesse è valido anche per l'Italia. Stabilire una connessione il più possibile utile fra il nostro sistema-Italia e il sistema adriatico-balcanico, evitare che quest'area diventi una terra di nessuno, un fattore permanente di instabilità è una delle costanti della nostra politica orientale. Fra l'altro - tornerò su questo punto nell'ultima parte - questo implica l'adozione da parte dell'Italia di una politica adriatica. E' abbastanza curioso che l'Adriatico negli ultimi anni sia diventato dal punto di vista dei collegamenti un mare greco, molto più che un mare italiano. Noi abbiamo brillantemente smantellato l'Adriatica e tutte le compagnie e i mezzi di collegamento transadriatici, che ora sono largamente in mano ai greci, con il risultato che quello che dovrebbe essere un lago interno è diventato una zona di mare, in cui la presenza italiana è assolutamente minoritaria e inferiore al potenziale.
In una prospettiva di sviluppo di quest'area adriatico-balcanica, ritengo che quanto è stato fatto negli ultimi anni sia stato abbastanza demenziale. Questo è il quadro generale che tende a rispondere alla prima domanda "a che cosa servono o possono servire i Balcani".
Passiamo ad esaminare l'evoluzione recente dell'area ex-iugoslava. Vorrei concentrarmi innanzitutto su due aspetti, ossia le svolte in Croazia e in Serbia. Considero, infatti, e non sono solo io a considerarli tali, la Serbia e la Crozia come gli unici due veri Stati della regione. La Bosnia-Erzegovina è tutto fuorché uno Stato, è una sorta di semi-protettorato, in cui non si capisce bene chi protegga chi, in cui non esiste un'autorità statale. Inoltre, la Repubblica Serba e la Federazione Croato-Musulmana, sono ben divise al loro interno tra croati e musulmani e non hanno molto in comune. La Macedonia è un gadget abbastanza improbabile, all'interno della Iugoslavia e della Serbia abbiamo il Montenegro e il Kossovo che costituiscono una realtà a sé stante. La Slovenia è ormai su un altro binario, in quanto è avviata verso un'integrazione europea. Ormai si parla di sistema di cinque + uno - uno (cinque le repubbliche post-iugoslave, il - uno la Slovenia che è ormai fuori, il + uno l'Albania). In questo sistema quelli che contano sono la Serbia e la Croazia, i due Paesi in cui nell'anno scorso per motivi naturali o politici, morte di Tudjiman e vittoria di Kostuniza alle elezioni di settembre-ottobre, si è avuta una svolta tendenzialmente democratica, sottolineo tendenzialmente, perché quando si parla di Balcani bisogna essere sempre molto prudenti. Se questo è vero, innanzitutto bisogna comprendere il significato di questa svolta dal punto di vista dell'area adriatico-balcanica. Quello che è interessante non è tanto che siano stati abbattuti due regimi autoritari e bellicosi che, di comune accordo, si sono spartiti le spoglie dell'ex-Iugoslavia, quanto il fatto che siano arrivati al potere, sia pure in maniera del tutto instabile ancora, delle nuove élites, che sono discutibili sotto diversi punti di vista, ma certamente non appartengono a quelle filiere mafiose e criminali che, attraverso Tudjman in Croazia e Milosevic in Serbia, controllavano il territorio in questi Stati. Kostuniza è sicuramente un nazionalista serbo, ma certamente anche una persona che, da quanto sappiamo, è estranea ai traffici in generale delle mafie serbe e delle altre mafie impiantate nel territorio e in particolare della famiglia allargata Milosevic e questo, certamente, vale anche per Mesic e Rajan in Croazia. Naturalmente questi cambiamenti, al di là del verificarsi di quelli che sono gli eventi naturali, come il cancro di Tudjiman, sono anche il frutto della stanchezza delle popolazioni croate e serbe, rispetto ad anni ed anni di guerre e povertà, di vessazioni, di furti di Stato, di essere tagliate fuori da quello che è un processo di sviluppo dell'integrazione europea a cui evidentemente sia i serbi che i croati hanno interesse a non essere estranei. E' anche vero che, negli ultimi anni, tra i due Paesi non esiste una particolare cooperazione, per dirla diplomaticamente, anzi il ricordo della guerra serbo-croata, il ricordo di Vukovar è ancora molto vivo. Malgrado queste due nuove leadership abbiano cercato di superare quelle che erano le divergenze e i conflitti passati, una certa distanza permane e una cooperazione serbo-croata che sarebbe fondamentale per stabilizzare e bonificare la regione ancora non funziona. Funzionava molto meglio la collaborazione tra Milosevic e Tudjman, i quali praticamente si telefonavano ogni giorno per scambiarsi le opinioni e gli auguri e naturalmente spartirsi allegramente il bottino di guerra.
Soffermiamoci un momento sulla Serbia, lo Stato più importante della regione da un punto di vista demografico ed economico prima della guerra, nonché per le sue radici storiche. Dico Serbia e non Iugoslavia, perché seppure Kostunica è il Presidente della Iugosavia, la Iugoslavia da un punto di vista sostanziale non esiste. Ho parlato prima del Kossovo che è una sorta di protettorato internazionale in cui di fatto esistono due poteri, sempre più conflittuali tra loro, quello della Nato e dell'Onu da una parte, e quello degli albanesi, divisi anche tra loro, dall'altra. D'altronde il Kossovo ha vissuto per vari decenni sotto un potere duale iugoslavo-albanese, adesso c'è un altro potere duale, quello Nato-albanese. Il Montenegro è formalmente parte della federazione iugoslava con la Serbia, ma andrà al voto tra un paio di mesi. Si tratta di un voto decisivo, nel senso che il Presidente Giucanovic, se vincerà le elezioni, è intenzionato a proclamare un referendum in cui i montenegrini dovranno decidere se restare nella federazione iugoslava, oppure no. Quindi, già adesso di fatto il Montenegro ha un piede fuori della federazione, ma potrebbe avere entrambi i piedi fuori della federazione entro la fine dell'anno. Se ciò avvenisse, cioè se il Montenegro si staccherà dalla Serbia, sarà molto difficile, per non dire impossibile, tenere insieme il Kossovo ed anche la Macedonia, dove il 30% della popolazione, specialmente nell'area occidentale, è albanese. Ma restando alla Serbia, è interessante notare che l'opposizione vincitrice delle elezioni, formata da un cartello di diciotto partiti, non è altro in realtà che una galassia molto eterogenea tenuta insieme dall'interesse comune a eliminare Milosevic. Pur avendo vinto la partita elettorale e avendo messo Milosevic in una condizione particolare, non troppo lontana direi dagli arresti domiciliari, permane parte del suo apparato burocratico-tecnocratico in alcuni ministeri e aziende. Il rischio di una conflittualità interna allo schieramento democratico, rischio presente d'altronde anche in Croazia, è diventato molto forte. Kostunica viene considerato specialmente dagli americani e dai tedeschi un personaggio di passaggio, una utile pedina in quanto con la sua figura di nazionalista onesto costituiva il soggetto ideale per sconfiggere Milosevic. Tuttavia, una volta eliminato Milosevic e non avendo più un vero Stato da presiedere, perché, come dicevo, la Iugoslavia esiste nella forma ma non nella sostanza, si pone il problema di una nuova transizione. Una delle figure emergenti è quella del leader serbo Gingic il quale, tra l'altro, ha il vantaggio rispetto a Kostunica di essere il capo di uno Stato che esiste, la Serbia, ed ha anche il vantaggio di godere di una serie di legami internazionali abbastanza sviluppati, in particolare con la Germania, mentre ha il difetto di essere notoriamente supercorrotto e di essere scappato durante la guerra Nato in Montenegro dal suo amico Jucanovic, cosa che dal punto di vista dell'orgoglio patriottico serbo non è considerato esattamente un vantaggio. Una volta abbattuto, speriamo almeno in maniera definitiva, il potere di Milosevic, il rischio di una spaccatura all'interno dello schieramento anti-Milosevic è del tutto presente.
Tornando al Montenegro, soffermiamoci su una questione di cui si parla poco ma che è molto importante, che è quella del Sangiaccato. Il Sangiaccato è una zona a forte densità islamica. In realtà il Sangiaccato di Novipazar durante il periodo ottomano era parte della Bosnia ed era culturalmente molto islamizzato e in parte serbizzato, certamente assai meno montenegrino. Le vicende delle guerre balcaniche hanno determinato la creazione di questo confine all'interno del Sangiaccato; la parte settentrionale con il capoluogo Novipazar si trova in Serbia, mentre la parte meridionale invece si trova in Montenegro. Quest'ultima parte è una delle vie di transito di quella che è stata definita la dorsale verde, cioè dei traffici criminali (armi e droga) e della penetrazione islamica, che collega l'Albania, il Kossovo e la Bosnia. Gli abitanti di questa regione sono essenzialmente considerati bosniaco-musulmani e non hanno particolare intenzione di essere governati dal Montenegro, mi riferisco soprattutto a questa regione meridionale montenegrina. Quindi in caso di indipendenza del Montenegro si può prevedere che si porrà un problema di spartizione del Montenegro che - può sembrare ridicolo, ma i Balcani ci hanno abituato a questo ed altro - creerebbe certamente una tensione in questa zona dove potrebbero persistere delle roccaforti serbe e dei collegamenti tra serbi e mafiosi islamici. Quest'area è perciò da tenere sotto controllo. Non dobbiamo dimenticare che Kostunica è il Presidente della Iugoslavia, ma è innanzitutto un patriota serbo. Questo significa che con la sua mentalità di patriota serbo, certamente vorrebbe che il Montenegro restasse unito alla Serbia in modo magari lasco e confederale. Ma quello che maggiormente gli interessa è la sorte della Repubblica Serba di Bosnia. Kostunica e, in generale, i nazionalisti serbi, essendo le vie della diplomazia infinite, potrebbero mercanteggiare (siamo nei Balcani) uno scambio tra il Montenegro, che potrebbe diventar indipendente, e la Repubblica Serba di Bosnia che potrebbe essere inclusa e in qualche modo riaccorpata alla Serbia. Questa è una delle possibilità. Come vedete è tutto ancora da determinare, siamo ancora in una fase di passaggio, non vorrei sembrare troppo pessimistico, sia pure considerando l'importanza fondamentale di quelle che sono state le svolte di Zagabria e di Belgrado. Come italiani, se non altro per la nostra forte presenza militare, siamo molto interessati a questa regione e alla situazione nel Kossovo. Il Kossovo è diviso tra un piccolo spicchio della città di Mitroviza e l'area nord, ancora più o meno abitati da qualche decina di migliaia di serbi, e il resto del Kossovo che è largamente deserbizzato, ma anche deromizzato, deturchizzato, nel senso che è sempre più albanese. Ciò a dimostrazione di una vecchia legge dei Balcani secondo la quale la pulizia etnica non deriva da una particolare perversione di un gruppo etnico o di un altro, ma dal principio molto semplice per il quale: "perché essere la minoranza di uno Stato, se si può essere la maggioranza nel mio proprio Stato". Nel momento in cui gli albanesi vedono la possibilità in Kossovo di creare un loro Stato, non intendono mantenere al suo interno minoranze allogene, culturalmente molto diverse da loro. Questo naturalmente getta un'ombra abbastanza sinistra su quello che è stato il dopoguerra kossovaro e anche su quello che è stato l'impegno nostro e della Nato in questi mesi, nel senso che, questo vale forse più per altri Paesi che per noi, non abbiamo fatto granché per evitare questa pulizia etnica. Da un punto di vista di cinico realismo forse non è stato nemmeno un male, dato che immaginare una qualche forma di Kossovo multietnico può forse scaldare l'anima di qualche idealista ma non può corrispondere alla realtà. Chi vuole un Kossovo multietnico vuole la guerra, nel senso che ricostruire una qualche forma di multietnicità in Kossovo significa passare per un'altra guerra, questo è abbastanza evidente, poiché spontaneamente serbi e kossovari non intendono certo convivere. All'interno del campo albanese, contrariamente a quello che volevano far credere gli americani per un lungo periodo, la forza politicamente più determinante si è confermata quella di Rugova, che spesso nella pubblicistica viene presentato come un moderato. Rugova sicuramente è moderato nei mezzi, ma è altrettanto estremista dell'UCK nei fini. Rugova ha sempre detto che ha perseguito l'indipendenza del Kossovo, e non c'è nessun tipo di addolcimento retorico o diplomatico che possa rendere meno vera questa sua volontà, si tratta di un obiettivo perfettamente legittimo. Io non sto criticando, sto semplicemente segnalando il fatto che la divisione tra Rugova e UCK e fra altri gruppi albanesi passa più per i mezzi che per i fini. In questo momento il paradosso è che Rugova ha vinto le elezioni amministrative ma non ha un vero e proprio esercito, anche se ha provato a costituirlo. Viceversa l'UCK ha perso le elezioni, però dispone ancora del TMK, una forza che formalmente dovrebbe essere controllata dalla Nato, ma in realtà così non è. Peraltro in un ambiente come quello kossovaro, avere una forza militare significa avere una certa dose di potere.
Parlando sempre di Kossovo, veniamo ad una questione di strettissima attualità, che diventerà sempre più calda. Le più importanti operazioni antimafia compiute l'anno scorso, si sono svolte nella zona della valle di Presevo (Bujanovac, Presevo e Medvedja), che è un'area di una pericolosità molto elevata. Alcuni comuni serbi nella valle di Presevo sono stati oggetto di un'offensiva, di una guerriglia composta da alcune centinaia (forse mille) di albanesi, tra l'altro provenienti da altre zone del Kossovo e della Macedonia. La zona presa di mira, dal punto di vista della rappresentazione geopolitica dei nazionalisti kossovari, è il Kossovo orientale, non è Serbia, per noi dal punto di vista politico-amministrativo è una parte della Serbia meridionale. Dal punto di vista di chi pensa al grande Kossovo è semplicemente una regione che si può definire Kossovo orientale. E' interessante ricordare - mi è capitato varie volte di parlare con ideologi dell'UCK - che loro quando parlano di Kossovo non intendono quello che noi chiamiamo Kossovo, intendono il Vilayet ottomano che, in realtà, andava da Skopje fino ad una parte di Montenegro, cioè corrispondeva ad una zona ben più grande del Kossovo attuale. Noi abbiamo fatto finta di non sapere che questo era il loro Kossovo, ma loro sanno benissimo che cosa intendono per Kossovo. Quindi, io credo che dovremo aspettarci problemi seri in questa regione. Problemi già evidenti li abbiamo nella Serbia meridionale, che, secondo il loro punto di vista, corrisponderebbe al Kossovo orientale. Anche a Tetovo, Gostivar, Braz, Tabanoze, cioè nella Macedonia occidentale c'è una forte maggioranza albanese che, in realtà, rappresenta l'effettivo cervello della guerriglia kossovara. A mio avviso, coloro che guidano la guerriglia kossovara non si trovano in Kossovo ma in Macedonia occidentale. Il loro obiettivo è molto semplice. Costoro non lo dichiarano, ma ogni tanto lo fanno capire: hanno capito che la Nato non gli riconoscerà mai l'indipendenza, quindi, anziché diventare indipendenti attraverso il Kossovo, cercano di diventarlo attraverso la Macedonia, poiché ritengono con qualche dose di ragione che la Macedonia crollerà perché troppo divisa al suo interno, anche etnicamente, tra slavi e albanesi. Quindi si potrà creare uno spazio panalbanese che comprenda questa parte della Macedonia e una parte della Serbia meridionale, ossia il Kossovo propriamente detto. E' interessante che ieri, proprio in questa zona, si sia verificato un primo conflitto a fuoco tra truppe macedoni, della repubblica di Macedonia e guerriglieri albanesi. Questo significa che la tensione non riguarda solamente Serbia e Kossovo, ma riguarda Serbia, Kossovo e Macedonia. Infatti quest'area è di estremo rilievo strategico e geopolitico, perché è fondamentale come via di passaggio, come collegamento viario tra Belgrado e Nis e, poi, a sud verso Atene. Si tratta di un collegamento che sulla carta è autostradale, in realtà è poco più di una strada, anzi direi poco meno, e che comunque costituisce una fondamentale connessione interna ai Balcani e anche all'Unione Europea, in quanto collega la Grecia all'Unione Europea. Inoltre, rappresenta un fondamentale crocevia mafioso situato nei pressi della famigerata cinta di Velititernovaz. Questa zona è storicamente uno dei centri delle narcomafie ed è oggetto di conflitto tra serbi e albanesi, in quanto crocevia di traffici mafiosi, di droga, prostituzione ed armi. In quest'area gli intermediari kossovari sono dominanti ed hanno un interesse particolare al controllo di questa regione, non solo per motivi geopolitici, ma essenzialmente di traffici.
D'altronde, questi due aspetti, molto spesso, in questa regione tendono a coincidere. Sarebbe anche interessante esaminare le rivalità interne alla guerriglia kossovara, che è tutt'altro che unificata, e le varie narcomafie e organizzazioni criminali albanesi della regione, nonché le loro connessioni con le organizzazioni criminali serbe. Un'altra ipotesi su cui i kossovari lavorano è quella di scambiare una parte del Kossovo settentrionale, a maggioranza serba, con la Serbia meridionale. Questa è una delle ipotesi avanzate dagli albanesi. Comunque, a mio avviso, in questo momento il maggiore elemento di instabilità della regione non sono i nazionalisti serbi o croati o albanesi, ma il Tribunale dell'Aja, fattore che può veramente scatenare una nuova stagione di conflittualità nella regione. Tutti sappiamo che il Tribunale dell'Aja è un'invenzione che ha avuto vari padri. Essenzialmente nato per volontà francese e americana, aveva lo scopo di compensare il mancato intervento a favore dei musulmano-bosniaci con uno strumento di pressione che da una parte desse all'opinione pubblica occidentale il senso che comunque si stesse facendo qualcosa, e dall'altra desse ai musulmano-bosniaci il segnale che i criminali di guerra serbi sarebbero stati puniti. Naturalmente le istituzioni nascono in un modo e poi vivono di vita propria. Quello che doveva essere, per citare l'Ambasciatore Holbrooke, uno instrument of policy, cioè uno strumento della politica, ovviamente americana, è diventato una struttura, a mio avviso, largamente "impazzita". Se devo prendere alla lettera quello che dice la signora Del Ponte, immagino che il suo ideale sia fare il processo sia a Milosevic che alla Nato, nel senso che si vuole affermare l'autorità superiore di questa istituzione. Questo è oggi lo scopo del Tribunale dell'Aja, ossia affermare la sua funzione e il suo potere. E' paradossale che, dopo che abbiamo finto per tanti anni di non sapere dove si trovava Karazic, in quanto l'Occidente non poteva sopportare l'idea che qualche soldato morisse per andarlo a prendere, ora si eserciti una tale pressione per costringere Kostuniza a consegnare Milosevic perché sia processato dal Tribunale dell'Aja. Tutto ciò ha un effetto destabilizzante. Si può sostenere che conviene comunque portare Milosevic a l'Aia e destabilizzare la Serbia, oppure, si può sostenere il contrario. Tuttavia, tecnicamente, un'azione di questo tipo ha un effetto destabilizzante; d'altra parte far finta di niente e immaginare che Milosevic possa fare, cosa che non farà mai, una tranquilla vita da pensionato a Belgrado, è anch'essa un'alternativa poco appetibile. Quindi, come vedete, siamo in una situazione abbastanza difficile.
Vengo all'ultima parte del mio intervento, quella che ci riguarda più direttamente. Come dicevo, a mio avviso, il principale pericolo per l'Italia non è rappresentato dal nazionalismo albanese, serbo o croato, ma dalla proliferazione di territori franchi in cui potere politico e potere criminale tendono a coincidere, creando quelli che ho definito "Stati-mafia". Per l'Italia, l'Adriatico può diventare quello che è per gli Stati Uniti il Rio Grande, cioè uno spazio di cerniera tra un territorio da cui provengono forti ondate migratorie, al cui interno si annidano anche elementi poco raccomandabili (generalmente non è la crema della società che arriva sulla nostra sponda), verso il quale dobbiamo adottare una qualche strategia. Per bloccare l'immigrazione messicana, gli americani hanno costruito delle strutture sul Rio Grande che, peraltro, non funzionano molto bene. Non credo che da noi venga fatto altrettanto. Ho fatto questo paragone un po' ellittico semplicemente per dire che dobbiamo elaborare una strategia per questo mare. Dicevo prima che la sconfitta di Milosevic e la morte di Tudjiman, rispetto all'obiettivo della lotta agli Stati-mafia, costituiscono un grande passo avanti, questo non dobbiamo mai dimenticarlo, ma sicuramente la situazione resta molto grave in Montenegro. Le tensioni tra Belgrado e Podgoriza non sono soltanto di carattere geopolitico quanto di spartizione tra le rispettive famiglie delle quote sui traffici di sigarette gestiti dal governo montenegrino, con la collaborazione di organizzazioni criminali e camorristiche italiane. Se questo è il quadro, è evidente che l'obiettivo italiano dovrebbe essere quello di spingere acché dall'altra parte dell'Adriatico si riformi una qualche forma di organizzazione statale, dato che evidentemente uno spazio iugoslavo non è possibile, ammesso che sia appetibile. Si tratta di favorire il passaggio da aree di nessuno, semi protettorati, semi Stati a zone in cui un minimo di legge e ordine siano garantiti, senza immaginare scenari scandinavi.
Questo significa anche immaginare la stabilizzazione in un quadro regionale, spingendo gli Stati a cooperare tra loro. Questa è la logica ed anche la religione del patto di stabilità, naturalmente accompagnata da una strategia di repressione della criminalità transadriatica che tenga conto anche di liberare alcune parti del nostro territorio dal controllo, più o meno soft, di organizzazioni criminali correlate all'altra sponda dell'Adriatico. Il rapporto tra flussi che provengono dall'Adriatico e alcune roccaforti/masserie dell'entroterra pugliese è molto importante per capire come il problema non riguarda solo l'altra sponda dell'Adriatico, ma anche la sponda italiana. E' un problema di controllo dello Stato sul suo territorio. Se questo è un punto, al di là dell'opera di repressione sull'una e sull'altra sponda dell'Adriatico, credo che si debba dare anche una prospettiva di sviluppo economico e commerciale all'area transadriatica. Ricordiamo che nel patto di stabilità, l'Adriatico viene considerato come un mare regionale e quindi vengono favoriti, almeno sulla carta, i progetti di cooperazione economica tra le due sponde. In questo, vedrei alcune priorità. Innanzitutto partecipare alla ricostruzione delle infrastrutture al di là dell'Adriatico, anche partecipando alla fase di progettazione (abbiamo preso impegni per varie centinaia di miliardi, seicento se non sbaglio, nell'ambito di progetti di ricostruzione dell'altra parte dell'Adriatico e ne abbiamo spesi meno di 30). Anche nella fase di progettazione, dal mio punto di vista, c'è un'incredibile mancanza di attivismo da parte italiana, ingiustificabile anche qualora la regione non ci interessasse. Ad esempio, il masterplan per l'Adriatico nell'ambito del quale ci eravamo impegnati a versare un miliardo di lire alla banca europea degli investimenti è passato sotto il controllo tedesco perché non ci decidevamo a fare questo investimento. Evidentemente, al di là delle dichiarazioni, siamo in presenza di una latitanza del nostro apparato statale e in particolare della cooperazione a livello centrale, che manca di un adeguato coordinamento. Questo è un primo punto: partecipare ai progetti per la ricostruzione delle infrastrutture e quindi anche dei collegamenti transadriatici. Francamente l'idea che l'Adriatico sia considerato un mare greco non mi sembra debba essere accettata come la normalità.
Più in generale, è necessario favorire lo sviluppo del sistema dei tre mari, quindi oltre ai collegamenti attuali e potenziali tra i terminali sul mar Nero (Varna e Costanza) e il nostro confine (fino a Trieste), nonché incentivare alcuni progetti di gasdotto e oleodotto, con il finanziamento di studi di fattibilità da parte anche americana che darebbero ai Balcani un ruolo molto più utile e positivo di quello che svolgono oggi. Lo stesso discorso vale per lo sviluppo della rete elettrica. Nella regione è presente una potenzialità notevole da questo punto di vista. Il potenziamento della rete elettrica, come pure le cooperazioni regionali, sono elementi su cui insistere. Alcuni progetti europei comprendono l'Italia adriatica e i Balcani, oltre ad una parte dell'Europa centrale e della Grecia. In quest'area si possono realizzare, e in parte sono in atto, dei progetti di cooperazione regionale molto interessanti proprio nella logica di rendere questo mare, in prospettiva, un lago europeo. Esistono già collegamenti tra regioni italiane e regioni dell'altra parte dell'Adriatico, altri sono da creare. Esistono sicuramente già importanti attività delle nostre regioni, in particolare le Marche, il Veneto, ma anche il Piemonte e la Toscana, che sono presenti però, per ora, solamente in una fase di ricostruzione di emergenza e che potrebbero e dovrebbero avere più rilievo.
E' molto importante che l'attività delle regioni sia coordinata con l'attività dello Stato a livello centrale, cosa che raramente avviene. Ai tempi della prima crisi iugoslava, si sono create in Italia forti tensioni tra centro e periferia. Ad esempio, la politica iugoslava di Trieste non coincideva con quella di Roma e questa discrepanza tra centro e periferia può avere degli effetti devastanti sul nostro sistema. Altri aspetti di minore importanza, su cui si potrebbe insistere sono, a mio avviso, la formazione delle élites balcaniche. Invece cioè di assistere a ondate migratorie, anche a carattere criminale, bisognerebbe individuare all'interno dei Paesi di provenienza alcune élites giovani da scolarizzare in modo che, in prospettiva, queste possano assumere una posizione politicamente rilevante e costituire un referente privilegiato per il nostro Paese. Questa politica è già stata adottata da altri Paesi europei e occidentali e non vedo perché non debba essere seguita anche dal nostro Paese, che ha un interesse più immediato. Lo stesso discorso è valido anche per tutto quello che riguarda gli scambi universitari, le borse di studio e le attività accademiche. Alcune università già lo fanno, ma si potrebbe fare molto di più. Credo sia fondamentale instaurare un rapporto anche culturale tra le élites politico-amministrative balcaniche e quelle italiane. Ciò infatti significherebbe godere di un valore aggiunto politico-economico di enorme rilievo, poiché parliamo di Paesi in cui la società civile non è molto sviluppata. Un altro aiuto potrebbe provenire dallo sviluppo e dalla diffusione del nostro sistema radiotelevisivo in queste regioni. Sarebbe necessario un approccio sistematico che investa i rapporti tra i nostri media, in particolare televisione e radio, e i media locali. Qualcosa è stato realizzato a livello di formazione giornalistica, ma senz'altro molto si potrebbe ancora fare per godere di un'influenza, anche economica, più consistente. Una presenza più radicata dei nostri media dall'altra parte dell'adriatico comporterebbe ricadute di carattere economico e commerciale senz'altro molto significative, come è avvenuto, ad esempio, nelle aree nordafricane.
Vorrei concludere con un'osservazione: oltre alle ragioni di interesse finora illustrate, i Balcani sono importanti per l'Italia perché hanno ripercussioni anche sulla nostra politica interna. Basta osservare il clima politico elettorale in Italia. Si può osservare una competizione all'interno delle forze politiche tra chi porta avanti una politica più intransigente sull'immigrazione e chi è dell'avviso contrario. Il tema non riguarda solamente la destra ma anche la sinistra. Da una parte i partiti politici cercano di catturare quote di consenso rispondendo ad una domanda di sicurezza proveniente dai cittadini, dall'altra si cerca di frenare derive di carattere più che xenofobo, esplicitamente razzista, che finiscono per identificare gli albanesi come criminali.
Quindi, è in gioco non solamente la sicurezza esterna ma anche l'idea stessa di società italiana, nel senso che da questa parte di Europa sud-orientale può venire una minaccia alla stessa coesione nazionale, in quanto il fatto che all'interno di questi flussi migratori ci siano delle nicchie molto sviluppate di criminalità può creare un senso di insicurezza molto forte nella nostra popolazione, specialmente in certe aree metropolitane. Questa insicurezza può diventare alimento di formazioni politiche o gruppi politici estremisti i quali fanno della lotta all'albanese, piuttosto che al serbo in quanto tale, un elemento di consenso e di radicamento nel territorio, che comporta problemi di ordine interno abbastanza rilevanti.


(*) Testo tratto dalla conferenza tenuta in data 20.02.2001 presso il SISDe

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